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La Grande Olimpiade del 1960, quando Roma vinse la medaglia d'oro anche degli impianti

Venticinque agosto 1960. Gli orologi presenti nei moderni tabelloni dello Stadio Olimpico segnano le 16:30 quando gli atleti di 84 nazioni fanno il loro ingresso per la cerimonia inaugurale. Sono partiti dal Villaggio Olimpico, a piedi. Gli uomini in giacca, cravatta e cappello di stoffa; le donne con le gonne a piega sotto il ginocchio. Alle 17:30 entra l’ultimo tedoforo della staffetta olimpica partita dai boschi di Olimpia. Fa il giro di campo e con la torcia accende il fuoco olimpico del braciere.
Il discorso è affidato a un gigante dello sport. Non solo per meriti sportivi. Adolfo Consolini, campione del lancio del disco, pesa più di cento chili e ha interpretato al cinema Maciste.  
Un gigante parla a ottantamila persone in un’Olimpiade che sarà di gigantiPasseranno alla storia le imprese di Classius Marcellus Clay, che non è ancora Muhammad Ali, nome acquisito dopo la conversione all’Islam. È un pugile che vince e pensa, parlando con un linguaggio perfino più veloce e tagliente del suo diretto, che pure è micidiale. E poi Abebe Bikila, sconosciuto etiope che si presenta al via nella maratona. Il mito dei corridori dell’Altipiano nascerà con lui. La gara si svolgerà sotto la luce artificiale dei riflettori che illuminano il percorso come un gigantesco set cinematografico, uno dei tanti presenti nella Capitale della Dolce Vita. Il traguardo è sotto l’Arco di Costantino. Bikila arriva solo, scalzo. Ha staccato tutti.
Nelle piscine del Foro viene demolito il record dei 100 stile libero da Dawn Fraser. Sulla pista in terra rossa dell’Olimpico trionfa Wilma Rudolph, una gazzella che abbina doti atletiche non comuni a un fascino indiscusso. Ne farà le spese il nostro Berruti. I campioni italiani portano l’Italia sul podio del medagliere con 13 ori, 10 argenti e 13 bronzi: la nazionale di pallanuoto diviene il Settebello, definizione che sa di scopone da bar. La leggendaria squadra della scherma non è da meno: Edoardo Mangiarotti stabilirà il record di medaglie olimpiche raggiunte. E Berruti, fisionomia vagamente da ragioniere, corre i 200 metri con gli occhiali a montatura nera, piuttosto spessa, ma nella retta sotto la Tribuna Monte Mario brucia tutti i suoi rivali. Nino Benvenuti, è un giovane pugile istriano. La sua storia è una di quelle segnate dal dramma bellico, in una zona di confine, contesa. Storia di esuli e di Foibe. I fratelli D’Inzeo: nessuno come loro in sella a un cavallo. Poi, il ciclista Sante Gaiardoni, unico azzurro a vincere, nell’occasione, due medaglie d’oro. E tutti gli altri… 280 atleti che fecero, allora, sognare un intero Paese. L’Italia, peraltro, vinse più medaglie di tutti in quelle che sono considerate le prime Paralimpiadi della storia, svoltesi negli impianti dell’Acqua Acetosa. 400 gli atleti provenienti da 21 Nazioni
Nel salto con l’asta c’è pure Don Bragg, al cinema Tarzan. Fa le foto al Colosseo con i mutandoni e il coltello. Faranno il giro del Mondo contribuendo ad esaltare il mito di una Roma in cui tradizione e modernità si fondono. E’ ancora la Roma del Ponentino, di Piazza Navona in cui si vende il pane caldo e non il Colosseo con la neve e i gladiatori in plastica. E’ ancora la Roma delle lambrette, dei foulard delle ragazze sul sedile posteriore, gambe accavallate sullo stesso lato, occhiali da sole a punta. E di bidonville che vanno sparendo lentamente. La guerra ha lasciato ferite e anche povertà. Si riscopre il mare alla domenica, il treno per Ostia è fonte di felicità. C’è voglia di vivere, e lo sport fa parte del quadro. L’Italia delle campagne impara a leggere e scrivere con la trasmissione “Non è mai troppo tardi”, il programma di alfabetizzazione televisivo più importante della storia. Protagonista è un giovane e carismatico maestro di scuola che viene dall’insegnamento nelle carceri e che è vissuto con gli indios Jivari dell’Amazzonia. È Alberto Manzi: insegna alla Fratelli Bandiera, nel quartiere romano di Piazza Bologna, proprio il luogo dove, originariamente, doveva nascere il Foro. Il cinema conosce il Neorealismo. È definitivamente superata l’era dei telefoni, bianchi. Adesso maestri come De Sica e Rossellini raccontano l’Italia della dura quotidianità, divenendo un punto di riferimento per tutto il cinema mondiale. Ed è la Roma dei divi e dei fotografi, con le loro cravatte strette e la borsa quadrata con pellicole e flash all’interno, che si dividono tra Cinecittà, Via Veneto e lo Stadio Olimpico: questo, costruito in marmo e travertino – e consegnato allo sport sette anni prima dell’Olimpiade di Roma – è un’opera gigantesca e di straordinaria bellezza, non solo per le sue linee ma anche per la sua compatibilità ambientale.

E’ il fiore all’occhiello degli impianti dove si consumano i Giochi della XVII Olimpiade e che andremo a raccontare in questo excursus.

Stadio OlimpicoCerimonie di apertura e chiusura, atletica leggera, calcio, equitazione.Quello che fa bella mostra di sé il 25 agosto è solo l’ultima delle versioni dell’impianto. Il nome attribuito è Stadio dei Cipressi: è progettato nel 1928, compreso nel Piano Regolatore dello stesso anno e parzialmente ultimato nel 1932. L’opera è così chiamata a causa della folta corona di alberi che viene sistemata sopra la scarpata, che fa da perimetro tra lo stadio e le colline di Macchia Madama. L’architetto Del Debbio, progettista del Foro, non pensa a strutture murarie in vista, ma a terrazze erbose. Rispettando la cornice paesaggistica, lo stadio viene appoggiato alla collina, dopo opportuni spostamenti di terreno, senza stravolgere in tal modo l’ambientazione che si offre allo spettatore. Un ulteriore sviluppo dei lavori è già previsto per la costruzione delle gradinate degli anelli superiori ma seguendo sempre la conformazione naturale del terreno, secondo il principio di attuare una compenetrazione dell’opera nell’assetto morfologico dell’area.
Stadio Olimpico, un invaso d’erba


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